Paesaggio culturale
“Paesaggio è percezione individuale e collettiva. Paesaggio è anche sedimento, rigore, illusione.
Però preferiamo intendere il paesaggio come opportunità, sempre occasione di progetto, a partire da cui gli strati di conoscenza e informazioni si intendono epidermicamente, si accarezzano e allo stesso tempo si intrecciano, si diluiscono, si influenzano e si potenziano.”
Jordi Bellmunt in “Questo è paesaggio, 48 definizioni”, a cura di Franco Zagari, Carlo Mancosu, m.e. Architectural bookj and review, Roma, 2006.

Lisbona 2011 (ADeco)
Il paesaggio, spesso erroneamente identificato come “panorama” meglio se incontaminato, contesto naturale quand’anche coltivato, è un entità molto più complessa in cui la materia vegetale, che pure può farne parte, è solo una piccola componente, un tassello di una struttura culturale stratificata e dinamica.
Paesaggio è infatti un territorio (urbano oppure no) la cui forma deriva dalla percezione che di esso ne hanno i suoi abitanti e dalle trasformazioni che in esso vengono attuate da fattori antropici oltre che “biotici o abiotici” (come ci suggerisce in alcuni suoi scritti J. Nogué, professore ordinario di Geografia umana a Girona in Spagna).
Generalmente i cambiamenti in un paesaggio sono fluidi, tracciabili anche quando impercettibili, legati a fattori economici non sempre traumatici, a modalità variabili di uso del suolo, ad abitudini identitarie nel modo di occupare lo spazio e relazionarsi al suo interno.

Chaumont sur Loire, Giardini ed erotismo 1999 (ADeco)
In alcuni casi come in concomitanza con conflitti armati, l’azione umana è contundente e produce strappi, non sempre recuperabili, di memoria e di forma dei luoghi. Le ricostruzioni , infatti, non sempre sono in grado di interpretare lo spazio in relazione alla memoria socio culturale di un territorio e spesso producono esperimenti autoreferenziali di arte e architettura che poco hanno a che fare con chi abiterà i luoghi ricostruiti.
Uno dei casi eclatanti nel nostro paese fu la ricostruzione di Gibellina in un luogo diverso dalla posizione originaria e non tenendo in considerazione età e abitudini della popolazione che fu perciò sradicata due volte: prima dal terremoto e poi da noi architetti.
A decenni di distanza in Abruzzo dopo il terremoto dell’aprile del 2009 l’obiettivo principale è stato quello quello non di ricostruire case, strade, piazze ma di reinventare la comunità partendo dalle relazioni, “scritte” nella memoria dei luoghi e della gente, tra spazio fisico e comunità stessa: ricostruire cioè il paesaggio che esisteva per quelle comunità e era permeato dalle loro azioni e tradizioni attive al suo interno.

Nizza 2011 Acma viaggi (ADeco)
Il progetto di paesaggio deve essere per questo ambizioso senza però scadere nell’autoreferenzialità. E quell’ambizione deve avere capacità di diagnosi e interpretazione dei luoghi e delle persone, deve ricostruire nel palinsesto delle tracce lasciate nel territorio, quelle ancora attive e necessarie o potenzialmente utili per lo sviluppo futuro lasciando andare quelle ormai obsolete o non più rilevanti.
Il progetto di paesaggio deve saper trasformare senza cancellare ma soprattutto senza ingessare, come troppo spesso viene chiesto dalle amministrazioni locali sulla scia di malintesi reiterati rispetto a ciò che ha valore e ciò che non è detto continui ad averne. Il paesaggio infatti è un organismo vivo e in continua trasformazione.

Lisbona 2012 (ADeco)
Questo ultimo anno ci ha imposto o semplicemente obbligati a riflettere su un nuovo paradigma di trasformazione che non ha a che vedere con l’uso quotidiano dei territori (i cosiddetti “paesaggi ordinari”) ne tantomeno con i paesaggi traumatizzati dalle guerre o dalle devastazioni legate a cause naturali o ancora con le apparentemente ineluttabili omologazioni legate ai paesaggi globalizzati che tanto spaventano ma che stiamo in vario modo e secondo interpretazioni specifiche, nelle varie regioni del mondo, fronteggiando a nostro favore. Quest’anno un virus, da molti definito il nemico invisibile, ci ha riportati ad una dimensione monocellulare della vita e del paesaggio apparentemente non incidendo sull’aspetto dei luoghi che abitiamo e in cui ci relazioniamo o in cui produciamo.
In realtà l’aver scalfito la nostra corazza fatta di velocità e abitudini “scontate” ha cambiato la nostra capacità di lettura dei luoghi che più direttamente ci rispecchiano (le nostre case in alcuni rari casi i nostri spazi di lavoro) e ci ha costretti a delle domande sullo spazio e il tempo nonché a dare delle risposte non sempre comode o facili da accettare.
Quel processo avviato in Abruzzo dopo il 2009 e basato sulla costruzione di una consapevolezza di comunità e paesaggio culturale condiviso si è prepotentemente impossessato delle nostre vite senza che qualcuno ci guidasse, senza una programmazione, senza che ne fossimo coscienti e ci ha trasformati.
Il nostro nucleo vitale ha dimostrato le sue idiosincrasie, le persone con cui avevamo legami sono riaffiorate una ad una nella memoria con il loro bagaglio di esperienze in comune con noi, l’incidenza della forma dei luoghi da noi creati spesso in maniera disattenta all’interno delle nostre case ci ha rasserenati o oppressi imponendo scelte di estroflessione o accomodamento migliore delle nostre relazioni interpersonali all’interno delle mura domestiche.
Quest’onda d’urto partita dai nuclei privati si sta espandendo anche fuori dalle nostre case così che città come Siena, ad esempio, si sono inaspettatamente animate senza che qualcuno si opponesse in maniera sterile, all’uso antico della strada per conversare, osservare, mangiare, aspettare che il tempo scorra ma accettandone con sollievo la trasformazione come esorcismo al silenzio e alla solitudine vissuta nei mesi passati.
Anche le campagne vicino alle periferie sono state riscoperte come nuovi parchi urbani destrutturati, da percorrere con rispetto delle produzioni in atto applicando un impegno specifico di conoscenza per un mondo non sempre parte integrante delle nostre giornate se non nel migliore dei casi come sfondo fuori dal finestrino dell’auto.
Se questa trasformazione di matrice nuova e “invisibile”, possa determinare cambiamenti strutturati nelle nostre abitudini e nella nostra modalità d’uso e occupazione dello spazio pubblico è ancora da vedere, certo è che ha stiracchiato, spiegazzato e ricomposto in una nuova struttura il paesaggio culturale delle nostre vite, delle nostre case, delle nostre città e campagne.